Questa intervista è stata pubblicata originariamente nel magazine di minimum fax per l’uscita di Fare scene. Oggi che Fare scene torna in libreria con un capitolo inedito, ve la riproponiamo in occasione del settantesimo compleanno di Domenico Starnone e gli facciamo i nostri migliori auguri.
Trovo che una delle migliori armi messe a disposizione del lettore in Fare scene sia l’antiretorica che pervade, in maniera diversa, Primo e Secondo tempo. Provo a spiegarmi. La seconda parte, quella in cui l’io narrante sceneggiatore adulto alimenta suo malgrado l’entertainment nostrano, vale a dire un mondo fatto di volgarità, ipocrisia, bugie, violenza psicologica e soprattutto brutti film, è anche quella in cui quello stesso uomo sembra prendere finalmente coscienza del tempo e della condizione in cui siamo tutti immersi. Guy Debord negli anni Settanta parlava di “società dello spettacolo”. Harold Bloom oggi paventa l’arrivo di una “teologia audiovisiva”. Al contrario, la prima parte del libro (quella in cui il protagonista bambino nutre la propria educazione sentimentale nelle sale cinematografiche napoletane del dopoguerra), lungi dall’essere un quadretto d’epoca edificante, può forse essere inteso come una sorta di cavallo di Troia infilato nei nuovi cinema paradiso di tutte le latitudini e cronologie. Insomma, sembra quasi che tu voglia dirci che l’immagine in movimento (cinematografica, e poi televisiva) ha o meglio ha sempre avuto qualcosa di ingannevole. È così?
Tutte le forme della rappresentazione, a conti fatti, hanno qualcosa di ingannevole, altrimenti non sarebbero forme ma la realtà stessa. Si potrebbe fare una storia della letteratura concentrandosi solo sulle strategie messe in atto dagli scrittori ora per ridurre al minimo la natura ingannevole delle forme, ora invece per accentuarla, e le due linee di tendenza, a ragionarci, non sempre risulterebbero nemiche l’una dell’altra, anzi. In entrambi i casi si tratta di simulazioni del reale, ora ottenute con effetti di realismo, ora con effetti derealizzanti. Il problema quindi non è l’ingannevolezza delle forme ma il loro potere, la loro capacità di suggestione di massa. L’immagine, si sa, ha sempre avuto una grande forza, considerato che sintetizza cose e corpi con l’apparenza delle realtà viva. Se poi è aiutata dalla parola (iscrizioni, didascalie, battute chiuse nel fumetto), l’effetto di vita vera si centuplica. L’energia propria dell’immagine, dunque, con l’avvento del cinema muto, del cinema parlato, della televisione, della diretta televisiva, della rete, è esplosa a livelli prima impensabili. E con essa la complessità anche etica della rappresentazione, visto che ormai il virtuale è parte imprescindibile di ciò che chiamiamo reale, ci plasma le teste e il modo di ordinare la nostra vita.
Il protagonista di Fare scene è messo al centro di questa esplosione. Fin dall’infanzia è stato travolto dalla passione per il cinema e già nel corso dell’adolescenza ha fatto, attraverso la fotografia, i filmini familiari in superotto, il proiettore domestico, la scoperta del nesso tra scrittura e film, le prove generali di quel trionfo generalizzato della narrazione per immagini che è oggi il cuore della cultura di massa. Ma hai ragione: il libro ha una sua struttura che, nelle intenzioni almeno, di passaggio in passaggio, dovrebbe sbriciolare la forma della rievocazione nostalgica e mostrare, a partire dallo snodo sull’oggi che ho chiamato ‘Intervallo’, e poi con la parte conclusiva del racconto, che erano già lì, in germe, i problemi di adesso.
Il bambino di Fare scene assimila proprio nelle sale cinematografiche tra la fine degli anni quaranta e tutti gli anni cinquanta quel deposito di forme a cui ricorrerà, per il suo lavoro di produttore di finzioni, quando diventerà sceneggiatore del cinema contemporaneo.
Susi, la giovanissima aiuto-sceneggiatrice che il produttore affianca a un certo punto all’io narrante e al regista, ha introiettato talmente tanto i codici della narrazione per immagini da avere l’impressione di essere “nata imparata”. Sex and the city e Pretty Woman sono già nel suo dna, senza neanche il bisogno di averli visti. Insomma, è una mutante (nel senso che rappresenta l’ultimo ritrovato in fatto di mutazione antropologica), o meglio appartiene alle legioni dei cosiddetti nuovi barbari. Si è molto parlato negli ultimi anni dei nuovi barbari. Per dire la verità – pure prima di Pasolini – ne parlava già la Scuola di Francoforte. Così la domanda è: un esercito di Susi ci travolgerà definitivamente? E: un esercito di Susi, contiene tra le sue fila i propri stessi anticorpi? In fondo, persino la generazione che marciava compatta al passo dell’oca aveva i suoi Wittgenstein…
Il narratore e Susi, pur essendosi formati in tempi decisamente diversi data la differenza d’età, sono fatti della stessa pasta, sono l’una il prolungamento dell’altro. Hanno macinato finzioni fin dall’infanzia, come don Chisciotte i romanzi cavallereschi, come Madame Bovary i romanzi d’amore, come Lord Jim i romanzi d’avventure. Niente di nuovo dunque? Sì e no. I romanzi e la loro forza di suggestione, che oggi esaltiamo a scatola chiusa, hanno sempre avuto un lato oscuro. Leggere, oggi, è considerato un valore assoluto e imprescindibile. La lettura è sentita come un antidoto contro la tv, contro il bruciarsi gli occhi con lo schermo del pc giocando, navigando. Ma leggere romanzi è stato per lungo tempo considerato pericolosissimo, quanto oggi perdersi negli schermi domestici: un traviamento dell’adesione alla realtà viva. Don Chisciotte, appunto, dà di matto per aver letto troppi romanzi cavallereschi. E i guai di Madame Bovary, di Lord Jim e di un bel mucchio di personaggi della grande letteratura hanno all’origine della loro vicenda il consumo di troppe storie d’amore e di troppi romanzi. Voglio dire che il romanzo stesso ha raccontato da tempo come la simulazione del reale, con le sue regole semplificatrici, con i suoi trucchi, con la sua seduzione dovuta al fatto che restituisce la realtà secondo un ordine del tutto finto, possa essere, in quanto intrattenimento di massa, un accecamento, una fabbrica di illusioni, un rifugio, una gabbia.
Oggi questo tema si è potentemente irrobustito. Il posto della letteratura di intrattenimento è stato occupato dalle televisione e da internet. Prima il cinema e poi la televisione sono diventati i più potenti divulgatori occulti di schemi narrativi. Hanno ‘narrativizzato’ come mai prima le nostre teste e i nostri sguardi. O sentiamo la vita ‘come un romanzo’, o ci sembra sprecata. Tutto è racconto o comunque va piegato alle regole del racconto, a una qualche sintassi narrativa. Naturalmente si intende il racconto per immagini; quello letterario raggiunge un pubblico esiguo anche quando i libri si vendono bene. Il protagonista e Susi sono stati plasmati (ma l’uno soprattutto dal cinema, l’altra soprattutto dalla televisione) in questo clima.
Niente di male, tutto ciò ha sicuramente anche un versante positivo: non c’è mai stata una tale competenza narrativa di massa. Il problema è che questa competenza è attardata. La tradizione narrativa che i media hanno massicciamente divulgato, almeno fino a questo momento, è fatta di stereotipi che, per motivi mercantili, per una più lineare costruzione del consenso, o più banalmente perché si tratta di divulgazione facile, non sono mai stati investiti né dalla complessità della grande letteratura di ogni tempo né dalla bufera decostruzionista del ‘900. A questo bisogna aggiungere che l’io narrante e Susi non sono solo passivi ricettori: essi si trovano a lavorare nel cuore potente della produzione di storie, fabbricano cioè organismi narrativi per i consumi di massa. E lo fanno attenendosi a un ordine narrativo che è ancora quello di Chisciotte e Emma e Jim, non certo quello di Cervantes o Flaubert o Conrad o – non se ne parla nemmeno – di Joyce, Proust, Musil, Svevo.
L’odierno racconto per immagini diffuso da cinema e televisione è vecchio e povero, prenovecentesco. Chi lo fabbrica lo fa come se fossero Chisciotte e Bovary che raccontano storie (anche solo la loro storia) dall’interno dei libri che gli hanno rovinato la testa e lo sguardo. Di conseguenza il rischio è che letteratura, cinema, televisione abbiano tutti autori come Chisciotte e Emma, e nessun autore come Cervantes e Flaubert. Mentre l’unico modo per salvarci, oggi, è proprio alzare la posta, iniettare complessità innanzitutto strutturale nei mezzi di comunicazione di massa. Cosa che comincia ad accadere, in alcuni film di scarso pubblico e nelle sperimentazioni di certe serie televisive. Segno che non tutto è perduto.
Leggendo Fare scene (in realtà leggendo anche il tuo precedente Spavento) ho avuto l’impressione che tra le altre cose tu stia utilizzando la narrazione sul lavoro come grimaldello per raccontare di cosa sono fatti oggi i rapporti di potere e come ne restiamo quotidianamente coinvolti: violentati per il nostro eventuale coraggio, colmi di vergogna (quando va bene) per la nostra eventuale connivenza, umiliati comunque per il fatto di esserne coinvolti. La figura dello sceneggiatore mi sembra perfetta per l’occorrenza, essendo assolutamente liminale: da una parte è un privilegiato, dall’altra è quasi un emarginato nel proprio campo di attività (perlomeno rispetto a regista, produttore, attori di grido), conta spesso quanto il due di picche per le decisioni importanti ma ha direttamente e soprattutto informalmente a che fare col potere, gli dà per così dire del tu, e poi lavora in un campo in cui arte e persuasione giocano continuamente alle tre carte tra di loro…
Ho cominciato a scrivere raccontando il lavoro che all’epoca conoscevo meglio: quello dell’insegnante. Nei miei libri c’è stata sempre una particolare attenzione alla condizione di una piccola borghesia intellettuale investita da ristrutturazioni e mutamenti radicali, ribelle e insieme connivente, desiderosa di riconoscimenti e frustrata nelle proprie aspirazioni (gli insegnanti-giornalisti-scrittori di Il salto con le aste, il bibliotecario-storico locale di Segni d’oro, i dimafonisti in via di estinzione di Eccesso di zelo, il ferroviere-artista di Via Gemito e infine gli scrittori-sceneggiatori di Labilità e Spavento, senza trascurare l’insegnante-pensionato-rivoluzionario di Prima esecuzione). Lo sceneggiatore di Fare scene è dunque il precipitato di parecchi tentativi di rappresentazione e di appunti accumulatisi negli anni in margine agli altri libri.
Certo, come sottolinei tu, la condizione dello sceneggiatore è particolarmente significativa. Lo sceneggiatore lavora con la scrittura, a tutti gli effetti è un narratore, ma non ha strutturalmente l’autonomia dello scrittore. Lo scrittore è il signore assoluto del suo testo; la sua opera nasce, si compie, si esaurisce nella scrittura-lettura. Lo sceneggiatore invece fa un lavoro di collaborazione. Il produttore, il regista, i consulenti di entrambi, gli eventuali cosceneggiatori, gli attori, chiunque a vario titolo si muove intorno a un progetto di film, legittimamente e illegittimamente può mettere bocca quando e come vuole nel lavoro dello sceneggiatore. La sua è scrittura provvisoria, è scrittura di servizio, è scrittura a perdere. La realizzazione piena del suo testo coincide con la sua sparizione nel film, sotto, dentro il racconto per immagini. Si tratta quindi di un lavoro che può risultare frustrante, non a caso c’è tutta una tradizione di scrittori, anche italiani, che, approdati al cinema, se ne ritraggono con sdegno.
Intanto però anche su questa linea molte cose sono violentemente mutate. Lo scrittore è diventato una figura in declino. A partire dalla seconda metà del ‘900, con il trionfo della televisione, con l’affermarsi massiccio della forza di suggestione del racconto per immagini, lo scrittore è sceso vertiginosamente di rango. La conseguenza è che lo sceneggiatore, pur non avendo mai posseduto un’aura , pur essendo gerarchicamente ai piani inferiori del palazzo delle immagini, pur essendo considerato tradizionalmente l’autore di una scrittura di servizio, s’è trovato a godere di un prestigio, diciamo, di riflesso, quello che gli deriva dall’avere a che fare, proprio attraverso lo scrivere, con la potenza della macchina cinematograficotelevisiva del consenso (o, perché no, se si riesce, del dissenso).
Questa marginalità potente, questa creatività subalterna, questa scrittura che, essendo prossima alle immagini, funzionale alla loro fabbricazione, finisce di fatto, oggi, per contare di più, nelle dinamiche della persuasione di massa, della scrittura letteraria, va raccontata nelle sue contraddizioni di fondo. Come del resto andrebbe raccontato cosa sta avvenendo, in parallelo, in campo letterario, quali strategie di sopravvivenza stanno di fatto trasformando lo scrittore e la letteratura. Sono naturalmente fenomeni in atto, ed è difficile dire dove andremo a parare.
Nel Disprezzo di Godard, a un certo punto Jack Palance, nei panni del produttore cinematografico, davanti a un recalcitrante sceneggiatore (Michel Piccoli) apparentemente deciso a battersi per non trasformare il film che sta scrivendo in una pacchianata commerciale, parafrasa Goebbels pronunciando una battuta a mio parere memorabile: “ogni volta che vedo un intellettuale, metto mano al libretto degli assegni”. Ora… Sartre è morto da trent’anni, Pasolini da trentacinque, ma è pure vero che il mondo nel frattempo si è dato molto da fare per rendersi irriconoscibile. Dunque, che senso ha oggi il concetto stesso di “impegno dell’intellettuale”?
La parola impegno s’è svuotata di senso con la fine dei blocchi e con la fine conseguente dei partiti politici novecenteschi. E questo secondo me è un bene: nessuno sente più la necessità di scrivere libri o film in cui sia messa a frutto una qualche scienza della linea politica. Oggi consideriamo impegnata un’opera che abbia al centro tematiche sociologiche. Quanto all’intellettuale, una volta che il mondo ha perso orientamento delle grandi semplificazioni ideologiche, firma appelli, rilascia dichiarazioni, interviene di tanto in tanto sui giornali, va qualche volta o molto spesso in televisione ma si limita a dire di solito cose di senso comune. La pratica dell’impegno è questa e chi parla del silenzio degli intellettuali evidentemente o non ascolta il nostro chiacchiericcio o ha nostalgia del passato, cioè di partiti, ideologie, schieramenti netti.
A me pare che più del vecchio impegno e delle sue forme residuali in questo momento abbiamo bisogno di un lavoro assiduo di bonifica dello sguardo. Non è più necessario e nemmeno urgente dare una qualche forma narrativa avvincente a ciò che i media già ci raccontano, tra l’altro con tecniche collaudate. È necessario e urgente invece imparare a vedere e a raccontare fuori da quel bagaglio di tecniche che in modo irriflesso hanno condizionato e condizionano massicciamente le nostre attese, le nostre reazioni. Mai come in questo tempo è sempre più difficile sottrarsi a ciò che già sappiamo e che ci è raccontato in forme che già conosciamo. Eppure imparare e insegnare a sottrarsi è l’impegno più irrinunciabile.
L’anno scorso, durante un volo di linea Roma-Bari, il signore che sedeva accanto a me (un uomo sulla cinquantina, corpulento e gioviale) a un certo punto ha interrotto la lettura del romanzo che avevo portato con me durante il viaggio e mi fa sospirando: “beato lei, che trova il tempo di leggere i romanzi! Io, col lavoro che faccio, ho tempo a malapena per sfogliare i quotidiani”. E io: “che lavoro fa, scusi?” E lui: “sono un senatore della repubblica”. Cinque secondi di silenzio. Ho ripreso fiato e ho provato a dirgli che leggere romanzi sarebbe potuto servire anche a lui, al suo lavoro, perché non di rado gli scrittori sono riusciti a raccontare questo paese in un modo e da punti di vista preclusi normalmente agli storici di professione, ai giornalisti, agli stessi uomini politici. Preso da un’assurda ansia da par condicio, gli ho così citato il Fenoglio del Partigiano Johnny, il Malaparte de La pelle, lo Sciascia de L’affaire Moro. Non conosceva nessuno dei tre. Ora, tu che hai raccontato e continui a raccontare da scrittore questo Paese, come ti senti davanti agli imminenti centocinquant’anni dall’Unità d’Italia?
Ho fatto l’insegnante per una trentina d’anni. Ho criticato duramente la scuola pubblica e i suoi riti. Ma quando qualcuno cominciava la lode dei tempi andati – una volta sì che la scuola funzionava –, mi arrabbiavo e dicevo: almeno questa scuola non ha sfornato cittadini che hanno sostenuto le guerre coloniali, la prima guerra mondiale, il fascismo, la seconda guerra mondiale, la democrazia cristiana, il craxismo, Berlusconi.
Oggi con una certa malinconia penso che molti dei politici che vedo in tv potrebbero essere stati miei alunni. I mutamenti intervenuti a partire dagli anni Ottanta – sono ben trent’anni – hanno neutralizzato qualsiasi sforzo formativo. La gran parte dei nostri politici tra i trenta e i cinquant’anni non sa niente non solo della storia letteraria di questo paese o di quella dei suoi contributi scientifici o la storia delle sue arti, ma anche della sua complicatissima e travagliata storia politica. Siamo una democrazia labile fondata su una memoria storica labile e su un esercizio della cittadinanza ancora più labile.
Alvaro raccontava di essere stato a casa di un avvocato, negli anni ’30, e di non aver visto libri da nessuna parte. ‘Lei i libri dove li tiene’ gli aveva chiesto. E quello gli aveva risposto offeso: “Quali libri? Sono laureato, ho finito da tempo di studiare”. La classe dirigente italiana da allora è ulteriormente peggiorata. Ho sentito Berlusconi dire in tv che quest’anno si festeggiano i centocinquant’anni dalla fondazione della Repubblica. Ed è sempre più chiaro che lui tra Monarchia e Repubblica non solo non fa grande differenza, ma pensa alla seconda come se fosse la prima, casomai in forma assoluta.