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Made in Europe

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Questo pezzo completa il discorso di un mio analogo uscito qualche giorno fa su Repubblica. Inizia allo stesso modo, ma poi approfondisce altri aspetti che per questioni di spazio non entravano nello spazio del quotidiano. 

A quale idea di cultura ci aspettiamo che l’Europa si aggrappi nella stagione in cui le sue fondamenta economiche (nonché l’idea stessa di una casa comune) sono scosse come mai era successo dal dopoguerra? Ed è lecito attendere segnali interrogando quel veritiero specchio deformante che è ancora la letteratura d’invenzione?

Come non di rado accade, preziosi indizi sono disseminati dove non ci aspetteremmo di trovarli, cioè fuori dal nostro continente. Pensieri selvaggi a Buenos Aires, l’ultimo libro di Alberto Arbasino, è uno scrigno che contiene tra le altre cose un dialogo con Jorge Luis Borges risalente al 1977. Dopo aver ricordato Robert Louis Stevenson, che giunto in California dichiarò “eccomi alla frontiera della cultura occidentale”, lo scrittore argentino, incalzato da Arbasino (“Ma lei si aspetta qualcosa dall’Europa?”), spiazza il lettore e forse meno l’interlocutore: “Mi aspetto tutto dall’Europa. Cosa ci si può aspettare dalla periferia? Periferia sono anche America e Russia. Noi facciamo di tutto per aiutarvi. Spero che tutto l’Occidente sia un po’ uno specchio eterno dell’Europa. Tocca a voi salvarvi, e salvarci anche”.

Brandire un conservatore come Borges può sembrare un estremo tentativo di dar lustro al Vecchio Continente quando a scommetterci sono rimasti in pochi. Dirò allora che più di recente Roberto Bolaño – un trotskista che amava Pound – ebbe a scrivere: “l’America Latina è stata il manicomio d’Europa come gli Stati Uniti ne sono stati la fabbrica. La fabbrica ora è in mano ai caposquadra, e i matti evasi dal manicomio sono la mano d’opera”. Oltre a esprimere dolore per i figli perduti del proprio continente, nel linguaggio paradossale di Bolaño c’è la constatazione che le sfide lanciate dall’Europa risultano tutt’altro che risolte, attendono anzi rilanci e aggiustamenti, magari proprio da chi le elaborò per primo. Il che è testimoniato da ciò che sta accadendo alla letteratura dell’altro nostro fondamentale interlocutore: gli Stati Uniti.

Dopo la grande ondata dei Novanta (il decennio che vide la luce di opere come Pastorale americana, Infine Jest, Underworld) qualcosa ha cominciato a rallentare nella narrativa statunitense. Credo dipenda da due fattori. Il primo è proprio l’infiacchimento del dialogo intercontinentale. Finito il periodo degli americani che “venivano a scuola” in Europa (Hemingway e Fitzgerald a Parigi, Faulkner che si accostava all’Ulisse “come un battista analfabeta al Vecchio Testamento”), o che degli orrori del Vecchio continente facevano un’esperienza di vita (Salinger sulle Ardenne e Vonnegut a Dresda), si è anche attenuata l’opposta spinta degli europei arrivati nel Nuovo Continente, come i Nabokov o gli ascendenti dei Bellow e dei Roth. Difficile che i nuovi scrittori americani siano oggi disposti a esplorare altri mondi per motivi più avventurosi di una fellowship.

Il secondo fattore è la crisi del postmoderno. Se opere come Underworld o Infinite Jest sono fondamentali per farci comprendere il funzionamento di un mondo dominato da consumi, mass media e flussi finanziari, il loro limite è stato quello di sviluppare sistemi perfettamente chiusi. Per quanto paradossale, è come se queste opere soffrissero di una strana forma di marxismo privo di escatologia. Esiste solo la struttura. Meglio: esiste solo la matrice di un presente in continuo upgrading. Un’ipertrofia della diagnostica (anche dolente) a cui fa da contraltare la debolezza di una scuola del sospetto che non si limiti a mostrare aspetti inquietanti nel funzionamento della Macchina (questo il postmoderno lo fa benissimo), ma la ben più radicale verità che la Macchina non è tutto ciò che esiste. Non viviamo in una delle epoche che più fatica a immaginare un futuro?

E qui torniamo all’eredità della nostra tradizione. Lo sconvolgente merito del Novecento europeo è consistito nel mostrare quali regni sotterranei sostenessero la piccola punta d’iceberg a cui la debolezza dei sensi si era abituata a dare il nome di realtà. Le parabole di Freud e gli incubi di Kafka, le sottili avventure di Stephen Dedalus e la complessa danza subatomica in cui galleggiano i Guermantes non sono semplici interpretazioni, ma una spallata in grado di aprire la porta verso mondi di cui ignoravamo l’esistenza. L’Europa ha però anche il vizio di trasformare con sconfortante rapidità l’audacia in accademia, motivo per il quale le ossessioni di Alex Portnoy e la bonaria pazzia di Moses Herzog risulteranno sempre più interessanti dell’ennesima imbalsamazione di Molly Bloom spacciata per romanzo d’avanguardia. Impossibile da una parte aggirare la vitalità e l’invidiabile robustezza delle opere con cui, almeno fino a poco tempo fa, i nordamericani hanno fatto scuola. E tuttavia, quando riesce a ribaltare l’odioso scetticismo di maniera nel suo magnifico speculare (ancora una volta il sospetto: quello di Galileo e di Giordano Bruno, di Marx e Einstein), l’Europa è sempre in grado di mostrare un’apertura e una capacità di mettere in discussione l’esistente sconosciute su altre latitudini.

Solo uno scrittore del vecchio continente poteva ad esempio intrattenere con il proprio paese una polemica furibonda quale quella che ha legato fino a poco tempo fa Thomas Bernhard all’Austria. E chi, se non un lusitano allenato a contestare i pilastri del mondo circostante (prendessero il nome di Dio o Capitalismo) avrebbe sviluppato l’immaginazione di Saramago? Paralizzati dalla crisi che scuote le basi del nostro patto continentale – abituata la superficie del nostro immaginario a considerare New York più vicina di Atene o Berlino –, rischiamo di non renderci conto quanto una possibile forza trasformativa qual è quella contenuta nella nostra tradizione sia, proprio in questi anni, al centro di un tentativo di rinnovamento. Basti ancora pensare alla profondità con cui Sebald ha fatto il contropelo alla Storia in Austerlitz. O ad Ágota Kristóf, capace di caricarsi sulle spalle un pezzo di mitteleuropa con quel grande romanzo che è Trilogia della città di K. La Spagna devastata dalla disoccupazione è anche il paese in cui Vila-Matas dialoga a distanza con Unamuno, e Javier Marías innerva le sue storie con quel “pensiero letterario” di matrice proustiana, che – capace com’è di scorrere libero dalla dittatura del plot – corre di tanto in tanto il rischio di inciampare in qualche domanda ultima. L’Italia del ventennio berlusconiano (sempre pronta a fustigarsi per non andare alla guerra) ha del resto prodotto scrittori come Walter Siti.

Così, se nel 1908 l’ebreo austroungarico Henry Roth arrivava in quella New York che avrebbe descritto in modo così toccante in Call It Sleep, a distanza di un secolo la storia si ribalta. Il 2007 è infatti l’anno in cui il newyorkese di origine ebraica Jonathan Littell, dopo aver scritto nella lingua di Flaubert un romanzo ambizioso come Les Bienveillantes, chiede e ottiene la cittadinanza francese per trasferirsi infine a Barcellona.

Potrebbe essere una delle stranezze di cui la storia letteraria abbonda. A me pare piuttosto un segnale interessante perché non privo di un suo contesto di riferimento. Non c’è uscita dalla crisi senza grandi idee a ispirarla, e forse sotto la cenere brucia più di quanto pigrizia e scetticismo vogliano ammettere.


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