Questo pezzo è uscito su Orwell.
«“Le cose non vanno bene,” dico io. “Non capisco di che parli,” dice lei. “Secondo te è così che dovrebbero vivere insieme un uomo e una donna?” dico io. “No,” dice lei. “Bene allora, parliamo”. Lei ha il viso tirato e pallido, gli occhi non sporgenti ma brillanti, le sopracciglia ben alzate. “Tu distruggi tutto quello che ami,” dice lei. “Io amo i miei figli,” dico io, “e non li ho distrutti.” “I ragazzi lasciamoli fuori,” dice lei. “Amo i miei amici,” dico io. “Tu non hai amici,” dice lei». Per i lettori italiani, il 2012 potrebbe essere ricordato come l’anno di John Cheever.
Dopo i primi libri già editi da Fandango, prima dell’estate Feltrinelli ha pubblicato I racconti di Cheever, un paradiso per chi ama la letteratura americana del novecento. A completare i testi sacri di Cheever, ora è arrivato anche il volume che raccoglie i diari, Una specie di solitudine (Feltrinelli, pp. 504, euro 20). Proiezioni dello scrittore nascosto sotto i suoi personaggi (nei racconti), e la nuda intimità della sua identità (nei diari). Il mondo come lo sognava, e la realtà indocile che gli si manifestò nella vita.
Se i racconti narrano ricongiungimenti, richieste di perdono, tramonti commoventi, istanti di memorabile felicità adombrati qua e là da una tristezza in agguato, i diari contengono ingredienti simili ma in proporzioni invertite. Quattro quinti delle pagine sono trafitti da sfiducia e depressione, con molti gin bevuti di prima mattina e tanti, capillari tormenti morali. Resta poco spazio per le nuotate rigeneranti, per le gioie del pattinare sui laghetti ghiacciati. Rimane giusto qualche uscita a pesca col figlio Ben, la luce dorata dei pomeriggi invernali, la neve che cade, una slitta, un kayak. Ecco la differenza tra la letteratura e la vita: «La maggior parte dei miei personaggi hanno dei camerieri a servirli, ma in genere ero io quello che portava i piatti a tavola». Ecco qual è la verità, quando nella mente sale la marea nera: «Nel momento più buio non si può ricorrere ai propri averi per salvarsi, né alle vecchie piste da sci né ai sentieri per il fiume». Dolci illusioni letterarie nei racconti, cocenti disillusioni del quotidiano nei diari.
Se la letteratura di Cheever è in parte autobiografica, l’approccio ai diari è decisamente letterario. «Com’è repentino l’arrivo dell’autunno col vento di nordovest e con la luna piena. In realtà l’estate non esiste; l’estate è un’illusione» annota. Gli eventi cruciali sono liquidati in una frase. Poche parole per la nascita del figlio, una battuta per la morte della madre, una mattina la figlia si sposa. Ciò che turba la sensibile anima di Cheever è l’avvicendarsi delle stagioni, le camicie inamidate della provincia, una nera sul bus che parla da sola. La bellezza sarà anche pronta a squarciare la cupezza, ma è rintanata nei dettagli («C’è niente di più meraviglioso del treno del lunedì mattina, quello delle 8.22?»). La grazia del mondo va scovata nelle cose banali, ripetitive: «Ci sono stati picnic, fuochi d’artificio, gite in spiaggia, tutte quelle cose piacevoli che si fanno insieme».
I diari vanno dagli anni quaranta fino alla morte: epoche scandite da riflessioni filosofiche e da un figlio che si sveglia nel cuore della notte con il mal di denti. Della sua vita concreta, dopo cinquecento pagine, non sappiamo nulla. Arriva Halloween, le città di addobbano per il Natale, John si veste già per il giorno di Pasqua. Di anni interi, Cheever salva un olmo splendido, o appunta: «ieri sera ho fatto la marmellata di ciliegie». Inevitabile e appagante, perdersi in questa galassia di frammenti. La vita, per Cheever, non è riducibile a episodi rilevanti: è piuttosto il perenne oscillare tra emozioni violente. Soprattutto, la vita è stravolta dai conflitti emotivi. L’omosessualità latente affiora, l’alcol lo divora, il confronto con gli scrittori lo porta sempre ad avvilirsi. Legge Bellow, Salinger, Flaubert, Dante, Nabokov, Roth.
I diari di Cheever sono il reportage da una guerra. Quella tra le brame della carne, anche le più indecenti, e i desideri dello spirito. C’è un esercito schierato in cerca della felicità, che lotta contro un nemico: la debolezza umana, incapace di accettare se stessa. «Sono stanco dei fili e di tutte le altre cose fragili», sintetizza. Lo stile di Una specie di solitudine è quello delle confessioni: «Sono stato ubriaco, sconcio, sgarbato, acido e libidinoso». Più l’anima punta alla purezza, più il rischio di sprofondare si fa alto. «Amo il corpo di mia moglie e l’innocenza dei miei figli. Nient’altro», scrive quando a dettare le frasi sono le aspirazioni cristalline, o «Vorrei sentire l’odore dell’albero verde e dare ai miei figli i loro regali e andare in chiesa e tagliare il tacchino e sedermi sul divano bevendo whysky e riflettere sull’abbondanza della vita». Ma le voglie da soddisfare all’istante irrompono e un’ansia maligna lo assale. L’inettitudine e la grettezza corrono ad umiliarlo. E così, quando vede una prostituta e si immagina di salire le scale con lei, fino alla sua stanza, il conflitto interiore deflagra: «Tutto questo mi sembra sporco, vile, e protesto: la mia mente che sale e scende mentre la mia coscienza le urla di tornare indietro».
Siamo davanti al tipico, tragico, scacco dei santi. Lo stesso preciso rompicapo che fa impazzire San Paolo, quando si dispera: «io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio». Solo che i santi implorano Dio, mentre Cheever si inginocchia, e ammette: «con quanta testardaggine mi rifiuto di pregare». Nonostante l’alcol, la depressione, i tradimenti, qualcosa lo salva tutte le volte che sta per sfracellarsi. «Mi infilo in quel bidone dell’immondizia che è l’idea del divorzio; io non voglio il divorzio». I diari oscillano tra dannazione e redenzione. «Ma poi penso a quanto è meraviglioso che questo matrimonio abbracci una simile moltitudine di incomprensioni, tempeste, infedeltà, fiumi di lacrime e continui ugualmente per la sua strada, con qualche passeggero ammaccato, sì, ma niente di serio».