“Che cosa ci avviene quando assistiamo a un film e dimentichiamo di essere seduti nell’oscurità? Che cos’è l’immaginario cinematografico oggi? Quale attrazione esercita su di noi? (E: “noi” chi?). La rubrica di Paolo Pecere esamina alcuni film esemplari in cui il cinema sembra affrontare dal suo interno queste domande, collegati dal tema della fantasia di un altro mondo e un’altra vita. Una passeggiata “dalla parte di Alice”, che passa per film più e meno recenti, da Avatar a 2001. Odissea nello spazio, da L’enigma di Kaspar Hauser di Herzog a Inland Empire di Lynch. Qui le puntate precedenti.
Twin Peaks, il Tibet e il segreto della fiction
«Ogni opera d’arte riuscita è una siepe leopardiana»
Emilio Garroni
Rivedere Twin Peaks, per chi lo ha amato all’epoca della sua comparsa, fa l’effetto bruciante con cui si riguardano dalla distanza le ore aperte della prima giovinezza: gli entusiasmi acritici capaci di animare oggetti dozzinali e cibi scadenti, i momenti euforici in cui si celebrava la possibilità di altre ore infinite, e si rideva delle proprie risate. Il filtro del tempo concede uno sguardo riflessivo attraverso queste emozioni, ma non le annulla: il tema di Angelo Badalamenti, che insinuava sotto la pelle un’accogliente malinconia, è ancora capace di suscitare un brivido, anche se ci rendiamo conto che allude proprio a un turbamento che inizia, ma è destinato a restare senza nome. E l’intero Twin Peaks trovava nel suo inizio il suo momento più essenziale – poco importava, dopotutto, come andasse a finire, sempre più sbiadito come un’onda circolare.
La fiction inaugurata da Lynch era capace, agli albori di un genere che con le sue micro-narrative ormai satura l’esperienza audiovisiva, di presentarne un’opera esemplare e al tempo stesso una riflessione interna. Twin Peaks è in tal senso un luogo archetipico, il cui segreto trascende e oltrepassa quello dei suoi personaggi pur memorabili, dall’agente Cooper a Laura Palmer. Non è immediato definire in cosa consistano questo segreto e l’attrazione compulsiva che ad esso si accompagna, poiché esso risiede nell’atmosfera e nella struttura della narrazione, più che nelle vicende puntuali dei personaggi: lo stesso “segreto” di Laura Palmer – uccisa dal padre posseduto da un demone – non era che una delle forme in cui si condensava il più ampio sortilegio di Twin Peaks.
Laura, studentessa dalle fattezze angeliche che di notte andava alla scoperta di esperienze erotiche trasgressive, sepolte nella via diurna della piccola “comunità” di provincia, moriva “bruciata” dal fuoco demoniaco delle energie primordiali incautamente risvegliate. Era in ciò l’eroina dell’intera “comunità”, che in forme più larvate intratteneva una peculiare comunicazione con l’aldilà della coscienza – dalle visioni della famiglia Palmer, alle profezie della signora del Ceppo, alle ricerche parapsicologiche del colonnello Briggs. Molti personaggi vivevano esperienze di trasformazione, di regressione (il romanzo psicotico di Nadine che torna a scuola, Benjamin Horne che trascorre mezza serie a giocare a soldatini), di completo obnubilamento (il sonno tormentato di Ronette Pulanski, il coma vigile di Leo Johnson), transitavano in stati di automatismo kleistiano, come sonnambuli. Lo stesso agente Cooper, per risolvere il caso, rinunciava all’approccio razionale e si metteva in risonanza subliminale con il luogo portando avanti le indagini attraverso la comunicazione in trance con un nano, con un gigante e con la stessa Laura Palmer. La verità si manifestava come segno sul corpo, messa in scena, urlo, abbaglio, molto prima che se ne potesse (semmai) decifrare il senso. Stava proprio in ciò il fascino della narrazione, che si manteneva a lungo – soprattutto fino alla soluzione del caso di Laura Palmer – sulla soglia di una completa oscurità attraversata da bagliori e salti logici.
In ciò risiedeva anche il fascino dei personaggi. Risultava insondabile il benessere dell’agente Cooper, soddisfatto della sistemazione «appropriata», entusiasta della crostata di ciliegie e del caffè nero bollente, consumatore di montagne di ciambelle glassate: non si sapeva quasi nulla del suo passato, lasciato fuori dalla cittadina isolata, e ogni dubbio veniva dissolto dal suo sorriso energico e disarmante. Le sue sentenze su come affrontare il giorno, e cacciare via i fantasmi della notte, suonavano di un’ingenuità quasi ridicola («AAAHHH, non c’è niente come una tazza di caffè nero bollente per iniziare la giornata!»), eppure ridacchiando si percepiva il vago sospetto che vi stesse sotto un’ingenuità seconda, superiore alla nostra saggezza.
In tutti gli abitanti di Twin Peaks il sentimento si presentava tanto intenso quanto incomprensibile: sbocciava improvviso l’amore tra il motociclista James e Donna, che periodicamente si estingueva e poi riprendeva fuoco come una fiammella scossa dal vento, senza che i due possedessero alcuna presa sui propri vissuti. Le passioni sopite scoccavano come lampi, animando i corpi senza giustificazioni narrative. Ecco l’aspetto che affascinava, come uno strabismo alieno: i personaggi andavano incontro alle proprie vicende senza riflettere, senza dubitare. La familiarità con le visioni di un altrove metafisico ne era fisiologica conseguenza. In questo stato di commercio con l’aldilà, aperto dalla morte di Laura quasi come dall’innesco involontario di un rituale, le vicende si trattenevano a lungo, mentre le indagini stentavano. Più della decifrazione dei segni contava il metodo speculativo, che Cooper abbinava a un altro luogo spirituale, presentando l’irresistibile caricatura di una razionalizzazione: occorreva ascoltare la lezione del Tibet.
Quel che contava infine non era tanto la conclusione delle indagini, e la scoperta del colpevole: come poteva esservi davvero un colpevole, un responsabile, se tutti i personaggi andavano alla deriva in un’eterna adolescenza, se si trattava di possessione, se il demone era figura di una lotta che si svolgeva su un altro piano, in altri luoghi – la loggia bianca e la loggia nera – la cui esperienza era onirica? Quel che contava era piuttosto l’intensità emotiva delle vicende, anima degli episodiche si prolungavano presto in una successione irrisolta e quasi pretestuosa. Lo spettatore partecipava di un conato, di un ingresso, che introduceva al mondo delle passioni assolute e della loro pura essenzialità, condensata in forze e luoghi spirituali. Ci si avvicinava così al vero segreto di Twin Peaks.
Ma Twin Peaks non si limitava a rappresentare le emozioni in forma semplificata e ipertipica, come era norma nella soap opera, bensì tematizzava al tempo stesso il coinvolgimento dello spettatore in questa rappresentazione, mostrandone l’illusorietà. Lo segnalavano due indizi disseminati nella narrazione: tutto era modulato in un tono grottesco, spesso comico; i personaggi apparivano come marionette, mettendosi a ballare di punto in bianco accompagnati da un motivetto swing, urlando in furori ciechi quanto improvvisi, spiegando con calma le proprie teorie deliranti, sconfinando nello stupore impenetrabile di una ritrovata ingenuità. Questa sorta di innocenza aurorale, che faceva apparire tutti come dei bambini, contraddiceva i dati della realtà, e cionondimeno affascinava proprio perché prefigurava la possibilità di un ritorno al di qua dei drammi e degli intrighi della vita in società.
Ma ecco il secondo indizio, rivolto allo spettatore, come a modulare questa fascinazione: nei primi episodi, si vedevano più volte i personaggi che seguivano in televisione una soap intitolata Invito all’amore. Si trattava del tipo di soap artefatta che compariva nella televisione di quegli anni, satura di passioni eccessive fino al ridicolo, disattenta alle trame risibili dell’intreccio ripetitivo e stereotipato, popolata da personaggi privi di memoria. Infine gli abitanti di Twin Peaks non ci credevano davvero, a questa finzione: lo rivelava un gesto di Shelley, imprigionata in un matrimonio con il violento Leo, che scrollava le spalle e spegneva la tv. Ma la consapevolezza di essere come i personaggi di quella soap non li raggiungeva, ed essi ne incarnavano con disinvoltura i desideri assoluti, i vuoti di memoria, le ripetizioni; la scena della televisione suggeriva però una riflessione dello spettatore reale su se stesso e sulla partecipazione emotiva che stava assaporando, come a dire: «si può guardare, ma non si può davvero entrare».
Questa riflessione è rimasta valida anche per il successivo sviluppo dell’intrattenimento televisivo. La giustificazione emotiva delle azioni e la perdita di responsabilità, quali condizioni di un contatto con dimensioni trascendenti, infatti, erano due pilastri dell’etica interna a Twin Peaks, che questa fiction condivideva con quelle versioni prosaiche e interattive della soap che sarebbero poi stati i reality show. Anche qui, in un contesto non privo di sceneggiatura, i pianti a dirotto, le agnizioni, i repentini cambiamenti d’umore e d’amore, l’aggressione, avrebbero dominato l’azione sorretti da un principio di assoluzione preventiva: la loro (finta) autenticità. In questi spettacoli il pubblico rivive il sogno di un’ipersemplificazione e deresponsabilizzazione dell’esperienza effettiva – complessa, dubbiosa, rimessa alle proprie decisioni – in una sorta di sfogo catartico collettivo. La possibilità di partecipare, di esibirsi di fronte a un pubblico muto, di essere testimoni della propria irripetibile autenticità, fornisce quasi un surrogato di affetto in una comunità disincantata e dispersa, quale quella di molte odierne città dell’epoca televisiva.
Anche il principio d’incarnazione del bene e del male, che serviva a donare distinzione all’universo etico di Twin Peaks, è capace di cogliere in forma esemplare un modus operandi dell’immaginario televisivo. Si può infatti ipotizzare che la stessa fascinazione morbosa e necrofila che oggi viene amplificata dalla televisione intorno a fatti di cronaca nera risponda a una simile, sottaciuta ricerca di un evento negativo eticamente puro, l’erompere della malvagità ingiustificabile e però aliena, metafisica: Bob, che al tempo stesso identifica un capro espiatorio e invita alla deresponsabilizzazione. Poiché se ha luogo un gesto di violenza incontrollabile e se questo viene ricondotto alla malvagità, la sua localizzazione e incarnazione aiutano a distanziarlo dallo spettatore e dal suo conflitto interiore, secondo uno schema topologico che rimanda alle storie di fantasmi e ai luoghi tabù. Allo stesso modo agisce la fascinazione dei luoghi di apparizioni buone, quasi che toccare il santuario e calcare il suolo su cui ha avuto luogo il miracolo potessero porre in contatto con un’essenza altrimenti sfuggente, renderne disponibile l’origine sottraendo l’individuo al lavoro etico, semplificare la vita. Twin Peaks, soprattutto nella terza parte, dava luogo esemplarmente a questa feticizzazione etica del luogo e a questa riduzione archetipica del personaggio – funzioni mitiche tornate tipiche del desiderio televisivo e delle sue logiche tranquillanti–, ma raccontava insieme con distacco ironico lo sguardo dello spettatore che vi s’immedesima, in un gioco che tiene in sospeso il rischio di morbosità. Era per questo, come tutto il cinema di Lynch, opera chiave dell’odierna civiltà dello spettacolo.
La presa di distanza ironica, tuttavia, non significava che il tutto non andasse preso sul serio; al contrario, il distacco dalle figure caricaturali segnalava allo spettatore che i conflitti etici non potevano rappresentarsi così esteriormente, e che quelle figure abitavano in lui stesso. Pochi anni prima, Lynch aveva rappresentato in Velluto blu (1986) un’esperienza simile. Il giovane e innocente Jeffrey Beaumont cominciava per gioco a introdursi nella torbida vicenda di una donna perduta (Dorothy Vallens) e di un violento e pericoloso maniaco (Frank Booth) che parlava solo di scopate. Per un verso, Jeffrey conservava la sua innocenza innamorandosi dell’angelica Sandy, cui riferiva delle sue indagini, e con cui alla fine sarebbe rimasto legato in un’immagine sovraesposta di felicità familiare; per l’altro, prendeva lentamente il posto di Frank, andava a letto con Dorothy, la picchiava, si sentiva dire in faccia da Frank: «tu sei come me». Il bene e il male, che isolati erano come vignette oleografiche, si incrociavano in realtà nella stessa persona, Jeffrey Beaumont: l’intera vicenda alludeva a un’incompiuta presa di coscienza, facendoci assistere alle improvvise trasformazioni di un personaggio, che stava a noi collegare in un quadro coerente. Infine, l’oscurità e la luce abbagliante non permettevano di vedere oltre: restava l’immagine di Jeffrey che spia e s’immedesima nella scena da dentro l’armadio, il resto sfuggiva alle reti della ragione.
Un simile meccanismo drammaturgico, nel linguaggio televisivo di Twin Peaks, era portato da Lynch a estremi ancora più grotteschi. L’attrazione subliminale delle indagini vi è diretta a un trascendente che si manifesta in immagine da baraccone, proprio perché l’immagine non ne è la forma adeguata, e tutto lo spettacolo è solo una messa in scena ad uso dello spettatore: il sipario che si apre sulla stanza rossa, come già in Eraserhead, introduce a un luogo onirico che è essenzialmente rappresentazione, capace di includere e smarrire la stessa coscienza che vi accede, sospendendo la sua vigilanza sul reale. La sua artificiosità – che nel successivo cinema di Lynch si presenta anche come riproduzione-simulazione audiovisiva, di cui il cinema non è che una figura esemplare – è segnalata dal neon e dai nastri letti al contrario, che fanno da cornice alle visioni angeliche e demoniache.
Come nella stanza del finale di 2001, sembra che nella stanza rossa di Twin Peaks tutto sia presentato in una forma adeguata alla limitata immaginazione dello spettatore, che figura ciò che oltrepassa l’esperienza quotidiana per analogia, attraverso l’eccesso di nitore o la distorsione percettiva; ma l’immagine è inadeguata al contenuto che la trascende, il quale perciò resta enigmatico e – tolta la simulazione – perfino sospetto di non esser nulla. Questo procedimento distanziante avrebbe poi influenzato molti autori di cinema, ma Lynch sembra ineguagliato nel sapersi trattenere sul limite tra serio e farsesco senza permettere che l’irrazionale e il subconscio si identifichino senz’altro con il numinoso, o col non senso (un analogo letterario di questo procedimento si può trovare, ai tempi di Lynch, in David Foster Wallace). Al medesimo risultato si approssima il cinema dei fratelli Coen, in cui gli sforzi ridicoli degli uomini incapaci di leggere la trama del proprio destino fanno capo a un patrimonio sapienziale anch’esso sottoposto al filtro dell’ironia (si pensi, da ultimo, a A serious man– 2009); una versione corrotta della medesima formula si ha nel cinema ad effetto di un Von Trier, in cui la mortificazione dell’uomo è funzionale a far risplendere i messaggi idiosincratici e le ossessioni dell’autore. Il punto essenziale, che distingue il cinema critico di Lynch da quello consueto prodotto dall’industria culturale, è che la visione suggerisca un’epifania che non si dà, il miraggio di un chiarimento infinito che si dissolve, rimandando lo spettatore a se stesso: in termini filosofici kantiani si potrebbe parlare di un cinema trascendentale, in quanto opposto a un cinema trascendente[1].
In questo senso l’ironia, in Twin Peaks, non risparmiava mai la manifestazione delle potenze metafisiche, la cui apparente verità risultava sempre distanziata da una veste risibile. Il manicheismo della storia, pertanto, avvinceva nella misura in cui si manteneva nell’indefinizione; la vera e propria personificazione delle entità etiche si accettava come una deludente necessità. Né aiutava il desolante tentativo dell’agente Cooper di riportare la questione su un piano più astratto –«Forse Bob è il male che c’è dentro di noi» – rivolto ai poliziotti spaesati nel bosco, che a caso risolto non sanno più cosa cercare. A poco giovava favoleggiare del Tibet, spostando la questione da un luogo immaginario ad un altro. Il punto cruciale stava piuttosto nella rappresentazione di una soglia, propriamente invisibile, oltre la quale si nascondeva una purezza che l’uomo può rappresentare solo in immagine. Nella realtà – quella dello spettatore seduto nell’ombra – c’è la trasformazione della coscienza, di cui il corpo non può mostrare la verità, e la cui rappresentazione più esatta è quella che risulta imperfetta e troppo schematica, proprio perché è irrapresentabile.
Che fosse questo il punto di fuga del cinema di Lynch lo mostrano altri suoi film – da Elephant man a Lost Highway– ma già in Twin Peaks il senso era chiarissimo: la palingenesi dei personaggi, il loro accedere effettivamente a una dimensione incorporea e incondizionata – ciò che nell’esperienza è impossibile – sul piano fittizio risultaletale. Così tutti i testimoni dell’epifania di Bob morivano: morivano Laura Palmer, RonettePulanski, l’uccello Waldo, Maddie la cugina di Laura, che si era messa nei panni di quest’ultima. Moriva anche Leland Palmer, che della possessione era stato il primo ricettacolo, e moriva Jodie, scelta come nuovo veicolo dal demone Bob. Nell’ultimo episodio moriva anche il cattivo Windom Earle e moriva anche – nel senso di perdere la propria coscienza – lo stesso agente Cooper: poiché entrambi erano incautamente transitati nella loggia nera.
Questa capacità distruttiva del trascendente, annidato nei boschi di Twin Peaks, non sottintende alcun preciso discorso metafisico, ma va interpretata a partire da un dato: l’accesso alla loggia bianca e alla loggia nera è possibile in base alla paura e all’amore. Questi luoghi dunque simboleggiano quella purezza di passioni incondizionate, cui tutti gli abitanti di Twin Peaks sono già occasionalmente esposti, e che ho collegato al fascino esercitato dalla narrazione. Ma la coscienza umana non corrisponde alla purezza di queste passioni, tipica di esseri angelici o diabolici, e perciò ne viene eclissata. Nella stanza rossa non ci può essere qualcuno.
L’eroe della storia, Cooper, attraversa entrambi i poli di questa esperienza. A Twin Peaks egli trova la felicità, fintanto che vive la fascinazione del luogo come presentimento, e fintanto che simpatizza da una certa distanza con le vicende dei cittadini, tenendo ancora in sospeso la sua residenza nella cittadina, e proiettando sul lontano Tibet le sue teorie speculative; egli invece soccombe dal momento in cui si innamora della cameriera Annie, credendo di ritrovare la possibilità di vivere a Twin Peaks un amore perduto. Quando Cooper decide di seguire l’amata oltre la soglia della loggia nera egli è ormai personaggio tra i personaggi, un novello Orfeo, e va incontro al suo destino di possessione. Le diverse sorti dell’agente Cooper permettono dunque di distinguere due parti di Twin Peaks: la prima, corrispondente grosso modo alla prime due stagioni, in cui questi si trattiene sulla soglia di Twin Peaks e del suo segreto, e vive felice; una seconda in cui egli cede alla tentazione di un accesso alla trascendenza, appare da subito incupito, dismette le vesti di agente federale e prende abiti civili, si confonde con le anime sonnambule, si perde.[2]
La capacità del primo Cooper di stare sulla soglia dell’immaginario, senza prenderlo senz’altro per reale – una soglia che attraversa l’intera trama dell’esperienza, restando sfumata, dubbia e sempre distante come un miraggio – si esprime in maniera esemplare attraverso un tema apparentemente triviale e infantile, che sta al di qua dei territori dell’amore, del sesso, della morte: si tratta del consumo di caffè e dolci. Il segreto senza contenuto, quasi buddista, della gioia di Cooper si dichiara nel corso delle sue estatiche merende con le sue famose esclamazioni autoevidenti. La crostata di ciliegie che è servita a Twin Peaks è oggetto di autentica adorazione: celebrarla è più importante di qualsiasi indagine. E poi ci sono le montagne di ciambelle che si accumulano sulla scrivania dello sceriffo. Ecco, in questo piacere culinario, esemplarmente prelogico, non visivo e radicato nel corpo, si annida la saggezza di Cooper.
Il piacere che si può gustare a Twin Peaks deve infatti essere pregustato e consumato in questa esperienza corporea conclusa nel presente, che con la sua eccezionalità allude anche a una gioia ulteriore, segnala l’eventualità del passaggio a un altro mondo, nel quale però non si accede ancora. Così la passione di Cooper, e dell’intero Twin peaks – come l’amore in Dante, Flaubert, Proust – consiste in questo pregustare un altro mondo, cui un essere amato ci potrà introdurre, ma in cui del resto non si accederà o che piuttosto, ad accedervi, non corrisponderebbe alle nostre aspettative mondane. L’inaccessibilità di questo piacere per noi spettatori è perciò un monito: condividiamo l’immagine di una soddisfazione iperglicemica, che non si può senz’altro vivere, che resta sempre a distanza. E per quanto i fan abbiano trovato il locale in cui è stato girato il film, e consumino di fatto le merende che vi vengono servite, quel piacere vissuto da Cooper resta in linea di principio non esperibile: lo contempliamo, con una pallida nostalgia, come l’immagine di un’esistenza più semplice e pura, evocata – in un gesto proustiano che possiamo solo immaginare di ripetere – da una crostata di ciliegie inzuppata nel caffè.
[1]Il termine ‘trascendentale’ rimanda al tentativo di comprendere la totalità (e i limiti) dell’esperienza trattenendosi all’interno di essa, senza pretendere un accesso intuitivo a un presunto dominio di conoscenza che la oltrepassi del tutto (che sarebbe il trascendente). Paul Schrader, Trascendental Style in Film (1972) ha usato lo stesso termine per indicare un cinema che allude alla manifestazione di qualcosa di «trascendente», e forse Lynch – che è incline a celebrare il «mistero»– gradirebbe l’accostamento; ma se il cinema di Lynch allude una prospettiva trascendente, lo fa in un modo ironico e distorto che non sembrano catturati dalla teoria di Schrader: proprio per questo il suo «mistero» insolubile rimanda lo spettatore alla realtà senza offrire alcuna precisa rivelazione.
[2] Che è anche un modo più caritatevole di dire che la terza serie diventa sempre più fiacca e si interrompe forzatamente con un clamoroso anticlimax.