di Francesco Musolino
«Una delle esperienze più forti della mia vita è stata la possibilità di assistere ad un trapianto di cuore. Ho visto con i miei occhi l’attimo preciso in cui il cuore a ricominciato a battere. Ed è stato incredibile».
La scrittrice francese 47enne Maylis De Kerangal è considerata una delle autrici contemporanee più importante, e con il suo nuovo romanzo, Riparare i viventi (edito da Feltrinelli, traduzione di Maria Baiocchi e Alessia Piovanello) è arrivata la definitiva consacrazione in patria. Ma togliamoci subito il dente, Riparare i viventi è un libro coraggioso, maestoso. Si parla spesso della funzione catartica ma pochi hanno scritto di trapianto, del concetto ontologico del dono e della sua «chiave di lettura propagandistica», assistendo in prima persona al reimpianto di un cuore nel soggetto ricevente. La De Kerangal racconta questo libro come un’onda, un movimento che parte dalla prima pagina per spingersi sino alla spiaggia, per giungere dal petto del 20enne Simon Limbres – che troverà la morte cerebrale nelle primissime pagine per un banale colpo di sonno – sino al corpo di Claire Méjan, la donna che ricevendolo, si salverà. Riparando la ferita, lo strappo dal tessuto sociale.
Con un grande senso del ritmo maestoso, in pagina la De Kerangal porta la vita stessa, la catena umana di tutte quelle persone – fra cui il medico e l’infermiera del reparto di rianimazione e i loro piccoli gesti quotidiani – che permetteranno di riparare alla “intollerabile ferita nel tessuto sociale” rappresentata dalla morte di Simon. Un libro centrato sulla desacralizzazione del corpo, sull’evidenza che la tecnologia permette, giorno dopo giorno, di spostare più in là il confine della morte, permettendo a chi resta di “seppellire i morti e riparare i viventi”, proprio come recita il dialogo del Platonov di Cechov.
Vorrei iniziare da un altro libro, L’Amico Scrittore, in cui Daniel Pennac tesse più volte l’elogio della sua scrittura.
«Ammetto di essere rimasta sorpresa. Non è un atteggiamento comune fra gli scrittori, quello di interessarsi ad altri autori contemporanei. Daniel Pennac dimostra molto originalità scoprendosi così apertamente».
Le prime due pagine del tuo libro sono un inno al cuore e proprio quest’organo sarà al centro del romanzo. Com’è nata l’idea?
«Ci sono molti modi diversi per entrare in un romanzo. In questo caso volevo un’apertura corale, che rendesse un senso operistico. Ho subito pensato di usare come punto di riferimento il moto delle onde del mare per parlare di Simon Limbres, per rendere al meglio un giovane uomo connesso epidermicamente alla fisica del mondo, alla natura stessa. Ho scritto questo libro come se facessi surf attraverso le pagine, puntando dritto verso la spiaggia».
Quale era il suo obiettivo?
«Il corpo di Claire Méjan, colei che riceverà il cuore di Simon».
Maylis, ma riparare i viventi è possibile?
«L’idea stessa di riparazione è da considerare come un’ideologia sociale, un modo per mascherare la morte. La morte di un giovane ragazzo è come una ferita, un’intollerabile ferita nel corpo del tessuto sociale. Ciò che permette di curarla, a mio avviso, è la catena di tutte le competenze mediche coinvolte, la solidarietà che permette il trapianto degli organi di Simon».
Parliamo del concetto di dono su cui ruota il suo romanzo.
«Il termine “donare” ha quasi un fine propagandistico. Simon è morto, non può acconsentire e allo stesso modo Claire non può rifiutare, altrimenti andrebbe verso morte certa. Per i genitori è davvero difficile, devono chiedersi cosa farebbe il defunto, rileggere la sua vita, lavorare con la memoria, cercando di capire cosa farebbe lui stesso. Immaginate una coppia di genitori costretta a compiere questo lavoro non appena il proprio figlio ha varcato la soglia della morte. Non hanno neppure il tempo di piangerlo, devono già decidere in sua vece cosa fare dei suoi organi».
“Il medico Revòl – scrive – si muove di notte al contrario del mondo diurno”. Cosa significa?
«I servizi di rianimazione negli ospedali sono aree chiuse al pubblico. Sono zone fisicamente separate. Un recinto che si trova a metà fra la vita e la morte, una zona sospesa in ogni senso. Nel mondo diurno possiamo progettare, pensare al futuro, non lì, fra quelle mura. Lì non è possibile».
Il libro è molto tecnico dal punto di vista medico e, al tempo stesso, è intriso di umanità. Perché?
«Volevo catturare la vita. Volevo catturare le piccole cose, i nostri piccoli tic quotidiani che ci rendono veri. Ho immaginato un movimenti diastolico e sistolico che segue il libro, un ritmo reso da questi piccoli gesti apparentemente insignificanti compiuti da coloro che compongono la catena umana capace di curare la ferita nel tessuto sociale, ovvero la morte di Simon».
A proposito dell’effetto onda, come Flaubert ha letto ad alta voce nei giardini?
«Sì, proprio come lui ho letto ad alta voce. Ciò a cui sono stata più attenta è la punteggiatura, la dimensione orale, il senso della fluidità nel racconto. Vorrei che il lettore, leggendo, sentisse tutto sotto la propria pelle. Emozionandosi».
Nel libro desacralizzi il corpo. È questo il concetto chiave del romanzo?
«Senza dubbio. Dagli anni ’60 il cuore non è più l’elemento centrale della vita, l’attenzione si sposta alle funzioni cerebrali. Una vera rivoluzione. Pensavo ci fosse solo la vita o la morte e invece ho scoperto che il corpo continua a vivere anche quando la mente si spegne».
Più che una storia di lutto, credo sia un racconto sulla guarigione, sulla catarsi. È così?
«Scrivere questo libro, per me, è stato un ritorno nel mondo dei viventi. L’ho scritto per metabolizzare la perdita di persone care. Il linguaggio che utilizzo è intriso della mia stessa tristezza. Anche io sono guarita scrivendolo. Anche io sono tornata fra i viventi».