Questa intervista è uscita su IL a maggio 2013. (La foto è di Marco Visini.)
Vive a Parigi dal 1975 e mi colpisce che un uomo che ha raccontato i più grandi eventi storici e conflitti mondiali degli ultimi cinquant’anni si dichiari legato alla città da motivi puramente letterari: “Io sono un lettore, un lettore non studioso, un lettore-lettore. In questo quartiere”, il nono arrondissement, siamo a casa sua, in salotto, in un mattino di fine marzo freddo e coperto, “c’è tutta la letteratura francese dell’Ottocento. C’è l’Education Sentimentale, a Rue des Martyrs e via del quattro settembre… Flaubert abitava a Rue Herold, quando veniva da Rouen. Dov’è il museo della vie romantique viveva un pittore, che era il pittore dell’imperatrice Sissi, da lui veniva Lamartine, veniva Turgenev, veniva George Sand, era un luogo d’incontro. Se guarda nei romanzi di Balzac c’è ogni strada del quartiere, sono tutti luoghi della commedia umana. I racconti di Bel Ami alla Trinité, è lì che lui seduce la padrona, e lui abitava qua… Zola abitava qui. Voglio dire, qui c’è stato tutto quello che io ho letto da ragazzo… Cos’era la casa di un borghese della pianura padana nella mia giovinezza? C’erano tutti i romanzi francesi. Secondo me questa è la spiegazione per la quale io vivo bene a Parigi. Ha poco a che fare con la Francia di oggi”.
È stato inviato in tutto il mondo: Santo Domingo, Argentina, Sudafrica, Algeria, Congo, Israele, Egitto, Iraq, India, l’Africa Occidentale, Singapore, India, Cina, Vietnam, per giorni, mesi o anni. Tutto comincia però dalla cronaca nera.
Bernardo Valli: Il reporter io l’ho imparato a fare a Milano. Volevo fare il giornalista: per vari motivi, non ho mai capito se era per viaggiare o per scrivere, penso fosse più per viaggiare. Allora c’era in Piazza della Stazione a Milano un piccolo grattacielo (il Pirellone non c’era ancora) dove c’erano dei giornali, e dentro c’erano La Notte che era un quotidiano del pomeriggio. Allora i quotidiani del pomeriggio erano molto importanti. A Milano c’era La Notte, c’era Milano Sera, c’era Il Corriere Lombardo, ed erano giornali e quotidiani di informazione, come a Roma c’erano Paese Sera che era già un giornale più articolato e Momento Sera e non so quali altri, a Milano c’era anche Milano Sera e facevano una grande concorrenza, grandi titoli ad effetto.
Uscivano il pomeriggio, tutti nel pomeriggio, alle tre alle quattro del pomeriggio, alcuni verso l’una, e avevano un grande impatto nella città. Si occupavano molto di cronaca nera e di cronaca rosa. La cronaca nera erano i fattacci. La cronaca nera in Italia è cambiata con il terrorismo che ha reso banale la cronaca comune e ha dato spazio alla cronaca nera. Allora questi giornali avevano i cronisti nei commissariati. Oggi nessuno si muove dalla redazione mentre lì si andava ogni giorno, ogni giornale, con la mazzetta del giornale del pomeriggio ai carabinieri in via Moscova e ai vari commissariati al centro della periferia, la stazione centrale, per raccogliere le notizie… Era un’atmosfera a Milano… Tutto è bello quando si è giovani e Milano era una città affascinante mentre adesso la trovo estremamente noiosa. Era una città dove arrivavano gli immigrati, quindi era pieno di storie, era anche una città non fredda come Torino rispetto agli immigrati. Quindi accogliente. Inoltre c’erano degli idoli popolari, il ciclismo era una cosa enorme… Il cinema, bisogna pensare per dare un’idea di quella che era la società che i fotoromanzi avevano un successo enorme, il giornale più venduto in Italia era Grand Hotel.
Siamo negli anni ‘50, i secondi anni ‘50. Io volevo andare a La Notte. C’erano vari piani in questo edificio. C’era La Notte, c’era La Patria, che era un giornale con uno staff napoletano, credo che nessun milanese abbia mai comprato La Patria, però aveva una cronaca eccellente che era fatta da Angelo Rozzoni, un capocronista che era stato credo al Tempo…
Io volevo entrare a La Notte perché il giornale più thrilling, diretto da Nino Nutrizio, un giornalista famosissimo allora. Non sono riuscito ad entrare a La Notte, non c’era posto. C’era un altro giornale nell’edificio, un giornale cattolico, L’Italia, che poi diventerà l’Avvenire, diretto da un prete, Monsignor Pisoni, un prete molto mondano e noto e a un certo punto amministratore del giornale, a cui ero riuscito ad arrivare. Mi disse “Se vuoi entrare puoi entrare come praticante a L’Italia”. Io non avevo nessuna idea di cosa fosse un cronista in un giornale cattolico e in effetti era una cosa strana: non potevo dare i nomi degli assassini, i suicidi non c’erano…
E gli omicidi-suicidi?
I suicidi non si potevan dare, gli omicidi sì. Quindi erano solo i furti, i delitti… (Perché allora si facevano le inchieste sul delitto. Uno andava a cercare, le fotografie, e alcuni trovavano anche degli indizi.) Rimasi alcuni mesi a fare il cronista all’Italia. Insomma, nonostante questi limiti, ad un certo punto si accorsero di me alla cronaca della Patria che era al piano di sopra, e fu determinante perché quando nacque Il Giorno nel ‘56, Il Giorno prese Angelo Rozzoni come caporedattore, lo prese dalla Patria.
Era un giornale con il cuore a sinistra. Il primo editoriale che uscì era “Il cuore a sinistra”. L’editore era Del Duca, il cugino di quello che faceva Grand Hotel e che faceva in Francia Nous Deux… che era il Grand Hotel francese, grande successo. Del Duca aveva fatto soldi ma aveva librerie molto raffinate a Parigi ed era anche un editore di libri d’arte, erano degli anarchici antifascisti i quali erano diventati editori di fotoromanzi. I cugini in Italia con Grand Hotel e gli altri cugini qua (hanno chiuso la libreria Del Duca, bellissima, qui a pochi metri da qua da poco tempo…) Però dietro c’erano già i soldi dell’Eni e di Mattei… Però era un giornale fatto da antifascisti di sinistra. Però il redattore capo era Angelo Rozzoni, uno che veniva dal Popolo di Italia e che ci ha lavorato fino al ’45, e fu l’anima del giornale. C’era Goffredo Parise, Gianni Brera, Clerici, Tommaso Besozzi, c’era Giancarlo Fusco… era una redazione straordinaria… e nelle pagine culturali lavorarono Italo Calvino, Carlo Emilio Gadda e Arbasino, Pietro Citati…
Stazionando ai commissariati avevo imparato a fare il giornalista perché il capocronista riscriveva il pezzo dieci volte, dove c’era proprio il modo di dare la notizia semplice secondo le regole del chi, dove, quando, eccetera. Spesso chi andava in commissariato a prendere notizie dettava i dati di quello che era accaduto e poi c’era l’estensore in cronaca che lo faceva.
E chi firmava il pezzo?
I pezzi non li firmava nessuno. In un giornale firmavano venti persone, Il Giorno aumentò un po’ le firme ma era rarissimo firmare. Quindi si imparava a scrivere il fatto, l’aggettivazione, la semplicità della scrittura e soprattutto le solite domande del cronista, quindi le cose più banali venivano spesso riscritte e venivano fatte riscrivere.
Quali erano le regole più importanti?
Be’ ovviamente quello che era importante era l’attacco del pezzo che doveva agganciare il lettore immediatamente… con l’informazione: non c’era nessuno svolazzo, il racconto era nudo.
Il fatto di occuparsi di cronaca le creava dei problemi?
Ne ero affascinato e mi è sempre rimasta dentro. Io avevo allora delle ambizioni diciamo letterarie, ma combaciavano benissimo con quello che era il lavoro, mi piaceva moltissimo il lavoro del racconto, che quando c’era un delitto uno lo seguiva, andava a casa dell’assassinato o dell’assassino e conduceva a suo modo l’inchiesta in parallelo con la polizia, anche se erano cose spesso banalissime. Quella è stata una cosa estremamente importante che non ho mai dimenticato. Era un giornale nuovo, lì la scrittura era importante, Il Giorno nasceva come giornale che voleva essere ed è stato moderno: ha eliminato la terza pagina (anche se poi fece un rotocalco…).
Era tutta notizia, avevano messo le notizie, non mettevano più i grandi racconti. Il Giorno era un giornale moderno, anche nell’impaginazione, mentre gli inviati del Corriere avevano un loro passo molto personale che poteva anche essere stravagante… da ragazzo leggevo Cesco Tomaselli, con il quale poi ho lavorato, che andava in Marocco per non so che cosa e raccontava come faceva le valige… Al Giorno no, ci doveva essere subito la notizia e l’ultima notizia in testa… E c’era uno stile nella scrittura contro il montanellismo perché era una forma di… il montanellismo era il racconto più rilassato, più fantasioso, immaginifico e anche efficace, ma invece al Giorno si voleva evitare questa cosa, volevano essere anglosassoni.
Come divenne reporter?
Dopo sette mesi entrò in stanza Baldacci [il direttore], e siamo nel ‘57 più o meno, e mi disse “Lei va in Venezuela” e allora io cercai subito dov’è il Venezuela e come ci si andava.
E come? in nave? In aereo?
C’erano gli aerei – a pistoni. Non mi ricordo più se si andava… Per il Venezuela, per Caracas… l’Alitalia andava all’Isola del Sale, la KLM faceva Lisbona…
E che andò a fare?
C’era un colpo di stato contro Pérez Jiménez, il dittatore era scappato e gli italiani avevano partecipato alla difesa, erano stati un po’ la base del dittatore e quindi venivano aggrediti per la strada: venivano riconosciuti perché non avevano il risvolto ai pantaloni. (Io da allora li ho sempre portati col risvolto…) E quindi quello fu il primo grande servizio che telegrafai per telefono.
Rimasi almeno venti giorni, poi andai a Santo Domingo perché vi si era rifugiato Peron e il dittatore Pérez Jiménez che era scappato con i soldi a Santo Domingo, che allora si chiamava Ciudad Trujillo, perché il dittatore della Repubblica Domenicana era Trujillo, e quindi c’erano i tre dittatori che vivevano insieme a Santo Domingo. Lì intervistai Peron, che poi lui voleva rientrare in Argentina e quindi andai in Argentina, rimasi in America Latina.
Allora gli inviati giravano per Corriere, Stampa e Giorno… Messaggero e qualche volta il Tempo… Insomma direi che erano quattro, cinque giornalisti. Egisto Corradi per esempio, che è stato uno dei grandi inviati del Corriere sui fatti di cronaca e di guerra faceva il delitto, il processo e poi partiva per fare invece l’Ungheria. Io ho fatto la mafia, Agrigento, il delitto Tandoj nel ‘60, il primo delitto contro un commissario, e dopo partii e andai a fare l’Apartheid nell’Unione Sudafricana, e dopo di lì il Congo dove sono rimasto mesi per l’indipendenza del Congo, quello è durato due anni almeno…
L’intervista con Peron fu la sua prima intervista seria e impegnativa?
Ne feci un’altra subito dopo molto più importante, perché in Venezuela c’era un ambasciatore che si chiamava Giusti Del Giardino, che era stato uno dei giovani diplomatici dell’epoca del fascismo e poi però era stato antifascista e uno degli epuratori del ministero degli esteri durante la liberazione… Era ambasciatore lì e come ambasciatore fu attaccato perché gli Italiani erano responsabili dell’affare Pérez Jiménez e quindi i giornali venezuelani uscivano con “l’ambasciatore d’Italia ha ucciso cinquecento venezuelani” (che non era vero). Comunque la cosa rimbalzò in Italia, andò in Parlamento dove vi furono molte discussioni. In Venezuela l’attacco agli italiani fu un grande fatto allora. Io però attaccai l’ambasciatore d’Italia perché in effetti non era stato a mio avviso abbastanza neutrale di fronte al problema di Pérez Jiménez. C’era una banda di fascisti, erano gli italiani di Etiopia…
Erano andati dall’Etiopia in Venezuela? E lui non era stato neutrale, era stato troppo favorevole al regime?
Sì, e quindi aveva coinvolto gli italiani… Però non è che avesse ucciso cinquecento venezuelani. Io allora a un certo punto difesi Giusti Del Giardino: fatto è che rimasi amico suo. Da lì viene l’intervista importante: lui fu mandato ambasciatore a Nuova Delhi. Allora a Nuova Delhi la residenza dell’ambasciata d’Italia era la vecchia casa del Pandit Nehru, il papà di Indira Gandhi, e Nehru ogni tanto era sentimentale e voleva andare a vedere il giardino della casa in cui aveva abitato, e diventò amico di Giusti Del Giardino, anche Indira Gandhi, molto amica. Nehru era inaccessibile, e invece io andai a Nuova Delhi per fare il servizio e Giusti mi fece incontrare Nehru e l’intervista con Nehru fu molto importante. Le storie di un giornalista allora… Forse anche adesso, ma il mondo era più piccolo, era frequentato da meno persone… Si stabilivano dei rapporti.
Prendi un fatto molto semplice, prendi una guerra medio orientale, io le ho fatte tutte, tutte quelle che rientravano nella mia età: il ‘67, il ‘73, l’82, non lo so, i colpi di stato. Il numero di giornalisti che partivano, certo eravamo alcune centinaia. Se tu pensi cosa è stata la guerra del ‘91 contro l’Iraq, non c’erano neanche le seggiole per far sedere i giornalisti. Già a Baghdad erano molti ma non tanti perché molti avevano accettato di andarvi sotto i bombardamenti pensando che c’erano le armi chimiche – ma all’inizio era un fatto dissuasivo. Quando si dice giornalista embedded, è vergognoso: qual è l’esercito che accetta tremila giornalisti che vanno tra i suoi carri armati senza chiedergli chi sono? È una sciocchezza. Chiunque chiede il controllo di sapere chi è. Gli americani, siccome non fanno la censura di principio… però fanno dei controlli. In Vietnam erano tutti embedded, cioè uno poteva essere non embedded, eh, intendiamoci, però poteva difficilmente girare. Non implicava delle condizioni esserlo, nessuno veniva a vedere quello che scrivevamo però avevamo un tesserino, potevamo andare ad una mensa, prendere un elicottero. Quindi non significava niente… però insomma, il numero di giornalisti era abbastanza limitato mentre adesso sono masse.
Intervistare Nehru, intervistare Peron, andare in posti di guerra… Mi faccia capire come si entra in un tipo di vita del genere.
Prima di tutto diciamo subito che per fare questo mestiere… Il mestiere è molto cambiato perché i mezzi di comunicazione e l’approccio alle notizie son diventati diversi con l’informatica. Ma in generale un giornalista che cosa dev’essere? Qui abbiamo fatto a Sciences Po un corso di giornalismo e prima del corso hanno invitato alcuni giornalisti per farsi un’idea di come dovesse essere questa scuola… Soprattutto perché aveva un numero limitato di partecipanti. E a un certo punto si pose il problema di come selezionare i candidati… E allora quali sono le caratteristiche per un giornalista? Essere il primo della classe? Non obbligatoriamente. Uno che conosce le lingue? Be’, meglio conoscerle, però uno può fare anche lo steward dell’Alitalia. Uno colto? Sicuramente una cultura generale la deve avere se vuol fare il giornalista perché deve distinguere quel che è eccezionale nel fatto. Io credo che la prima cosa è la curiosità, se non sei curioso non puoi fare questo mestiere. La seconda è una capacità di capire velocemente, devi avere un certo occhio e avere un’idea. Poi c’è naturalmente la sfacciataggine, l’irruenza, il fatto di affrontare un argomento con sfacciataggine.
E lei all’inizio come faceva le domande?
Prima di tutto, se andavo a vedere Peron…
In che lingua ha parlato con Peron?
In spagnolo. Ma lui parlava anche italiano, una specie di dialetto veneto, e poi aveva un addetto stampa che si chiamava Amerigo Bario. Il grande tema di Peron allora era, il grande slogan era “Volve Peron”. Pensava di tornare. Nehru era un po’ più complicato, era un grande intellettuale, secondo me uno dei più grandi uomini di stato che ci siano stati e poi soprattutto un intellettuale che diventa uomo di governo…
E la mise in difficoltà?
No, per carità… Con Nehru ero abbastanza intimidito, intendiamoci… Però era molto affettuoso, gentile. Poi soprattutto io avevo letto le sue memorie. Nehru era uno che l’Italia, il Risorgimento, eccetera, quindi… E poi l’India era in un momento… L’indipendenza fu nel ‘47, eravamo già tredici anni dopo… Io poi ho fatto una campagna elettorale con lui e con la figlia Indira Gandhi che era l’addetta stampa sua… Su un treno lui faceva la campagna elettorale in India, girando. Però era estremamente curioso e poi allora a lui interessava il rapporto con la Cina: erano domande semplici, uno con Nehru se aveva la faccia tosta di affrontare argomenti che non conosceva… Quando io parlo della curiosità e della sfacciataggine che ha un giornalista… e poi della velocità di scrittura.
Dopo, quali direbbe che sono gli eventi più importanti di questa sua formazione? Prima di arrivare al Vietnam che altro ha fatto?
I primi servizi che io feci furono credo in Venezuela e in Marocco. In Marocco siamo già vicini alla guerra di Algeria, che io ho fatto dal ‘57 e soprattutto dal ‘58 quando. Ero a Parigi nel ‘58, quando nasce la quinta repubblica: c’è il putsch dei militari ad Algeri il 13 maggio e qui io venni a Parigi, non si poteva andare ad Algeri, e c’erano grandi manifestazioni perché i paracadutisti volevano sbarcare qua ed ero all’Hotel d’Orsay, dove c’è il Museo d’Orsay, De Gaulle tenne la conferenza stampa quando prese il potere, era il 20 maggio, 25 maggio, quando sarà? Io arrivai, non avevo il permesso, andai all’Hotel d’Orsay. C’era un albergo e una stazione.
E De Gaulle com’era? Era la prima volta che lo vedeva?
Sì, certo. Era la prima volta e arrivò e disse che prendeva il potere. Noi eravamo seduti per terra, erano le otto di sera e fu, be’ certo, una sera abbastanza curiosa. Poi io riuscii a prendere un albergo per Algeri subito dopo e lì tutta la storia dell’Algeria…
E lì faceva paura?
Il giornalista non deve mica esagerare. Quelli che parlano sempre della morte… Muoiono più muratori sui tralicci. La guerra di Algeria non era una guerra di fronte. C’era stato il terrorismo ad Algeri, prima… La battaglia di Algeri, quella di Gillo Pontercorvo (con il quale ho lavorato molto per il film), però era prima…
E le notizie come si prendevano?
Questa è la grande differenza di oggi. Io per esempio son stato molte volte in Cina… ricordo sempre la Cina perché quando uno vi arrivava era emozionato, io sono andato che c’era ancora la rivoluzione culturale, il primo viaggio in Cina che ho fatto credo… c’era Lin Biao che era scomparso, non si sapeva ancora se era morto, sarà stato ’67 ‘68… Quando uno arrivava in Cina era solo in albergo, allora doveva cominciare a lanciare le notizie, le informazioni. A volte l’ambasciata serviva, spesso l’ambasciata non serviva a un cazzo. In Cina non c’era neanche l’ambasciatore. Una delle fonti più rassicuranti era stabilire rapporti con le agenzie di stampa, la Reuters, l’Associated Press, l’Agence France Press, perché lì c’era il file, e poi la BBC. Uno metteva la radio da qualche parte della stanza perché bisognava che ci fosse campo e spesso non c’era e quindi non si sentiva la BBC… E poi naturalmente via via allacciare i rapporti.
Uno non sapeva quello che accadeva a cinquecento metri. Oggi tutto questo viene risparmiato perché uno apre il computer e ha tutte le agenzie, quindi deve aggiungere qualche cose, quindi la Cina che uno aveva, attraverso i rapporti che riusciva a stabilire, quando uno partiva aveva qualcuno, qualche conoscenza, questo vale per tutti i giornalisti da quando esiste il giornalismo. L’informatica, il computer cambiano completamente tutto, anche la propria autonomia perché prima era la mia Cina, magari anche sbagliata, ma l’influenza di quello che mi dà il computer è inevitabile, molto forte, e quindi il mestiere in questo senso è molto cambiato.
(La conversazione va avanti. La partecipazione a eventi epocali che avrebbero costituito il ricordo fondamentale della vita di qualcun altro vengono chiamati in causa per far capire come funziona il giornalismo. Qui di seguito parliamo del rapporto tra i pezzi d’occasione e i lenti cambiamenti del mondo.)
Io ho fatto una delle cose più importanti, la decolonizzazione… quando le dico che nel sessanta vado nel Sudafrica, poi vado in Congo dove sono rimasto molto a lungo… per due, tre anni stavo lì dei mesi… allora si stava lì molto tempo, ma poi io ho fatto la decolonizzazione di quasi tutta l’Africa Occidentale… il Ghana, la Guinea… magari ci stavo poco però spesso ho conosciuto o comunque bazzicato tutti i protagonisti dell’Africa indipendente. Vedere un continente che diventa indipendente è una cosa esaltante. Anche prendendo delle fregature enormi, perché Sékou Touré diventava un eroe e poi invece si rivelava dopo qualche anno un criminale.
E questo ora con la primavera araba è stato un po’ simile?
Sì, però bisogna pensare sempre una cosa molto precisa: il giornalismo non è prevedere la storia, uno racconta la verità lì, del momento, quella è… una rivoluzione come quella in Egitto in un paese come l’Egitto dura tra i dieci e i quindici anni minimo. Lei sa quanto tempo è passato dalla rivoluzione francese alla prima democrazia? Ottant’anni, dall’89 alla prima vera democrazia, quella della terza repubblica nel 1870 quindi sono quanti?, ottantuno anni… Ci passa il terrore, napoleone, la restaurazione, la seconda restaurazione, il secondo impero. Diciamo che fare la decolonizzazione è già un fatto… Tutti questi grandi capi africani spesso diventano dei tiranni e spesso criminali come Sékou Touré mentre io li vedevo come gli eroi che prendevano e liberavano il proprio paese: ma infatti erano degli eroi, perché già il conquistare la propria indipendenza nazionale, se non le libertà individuali, era già un fatto…
(Passiamo a parlare di estremo oriente. La guerra del Vietnam e soprattutto il popolo vietnamita rapisce l’intervistato, che risponde con lentezza, fermandosi di continuo ad acchiappare ricordi privati, che però non mi racconta. Per tutta questa sezione ho la sensazione di averlo perso.)
La seconda esperienza estremamente importante è l’Asia. Io ho passato tanti anni in Asia e chi ha fatto l’Asia, chi ha fatto la guerra del Vietnam rimane… ma non perché la guerra del Vietnam fosse un’esperienza rischiosa o di guerra ma per l’esperienza umana in quel paese… Un giornalista che faceva l’Asia ed era fisso lì, guardava tutto il resto…
Ci ho passato anni. Ero a Singapore ma facevo il Vietnam, avevo la casa perché era ad un quarto d’ora di aereo dal Vietnam e da Singapore si trasmetteva. In Vietnam sono stato tante volte, per il Corriere sono stato alcuni anni ma son stato tante volte prima… È stata una cosa molto importante perché il rapporto con la popolazione era straordinario, si son creati dei rapporti formidabili, non dico che rientrassi nella società vietnamita però avevo un rapporto con la società vietnamita…
Il carattere del vietnamita è allo stesso tempo orgoglioso, dignitoso, di grande coraggio, le donne hanno un ruolo estremamente importante, non solo perché sono carine, sono belle, spesso ci si stabilivano rapporti amorosi, di concubinaggio eccetera. Poi la religione che non è come si dice buddhista, non è per niente buddhista, è una religione di tipo confuciano, il culto degli antenati, e quindi non ci sono dogmi, impedimenti, non c’è un’ostilità di origine religiosa. I francesi che hanno combattuto i vietnamiti avevano più rispetto, ma anche gli americani: per esempio se uno parla di un’altra guerra, io son stato in Iraq parecchie volte durante la guerra e dopo e non ho mai visto, non c’è mai stato un soldato americano in un bar che ha bevuto una Coca cola con un iracheno, non ha mai camminato per le strade senza un’arma.
In Vietnam l’americano si mischiava, la sera andava nei locali notturni, si trovava la ragazza, che era la con gái, stabiliva un rapporto… E questo è avvenuto anche durante la presenza francese che è durata quasi un secolo, dal secondo impero fino al ‘54… E nonostante ci fosse la brutalità del rapporto coloniale, razzista, c’era però la capacità vietnamita di assorbire delle cose dalla civiltà occupante, percepirle senza lasciarsi completamente coinvolgere. Se lei va in un museo vietnamita lei vede che la guerra americana sì c’è ma non è la guerra più importante, la presenza francese c’è ma non è la più importante anche se è durata un secolo. Quella che importa è quella cinese, perché è lì da sempre. Il Vietnam è stato estremamente importante più che come guerra come esperienza di vita. I giornalisti che hanno sposato delle vietnamite sono ancora sposati con delle vietnamite.
Adesso ho persino paura, ci son tornato, c’è troppo traffico, le cose cambiano, come tutto.
Com’era organizzata la sua vita in Vietnam?
Uno poteva anche abitare in Vietnam, eh, però io seguivo la Cina, andavo in India, quindi Singapore era perfetto per vivere. Era un posto dove il telefono funzionava. Avevo una casa, a Singapore, per il Corriere. A Telok Blangah, sotto il Mount Nelson, che è un monticello che domina Singapore, ha la teleferica che scende; è di fronte a un’isola dove adesso c’è un meraviglioso museo oceanografico bellissimo, ed era un pezzetto di giungla dove c’erano le vecchie case, le palafitte, che erano le case del porto di Singapore…
E lei viveva in una palafitta?
Sì, vuole vedere la mia casa? Gliela faccio vedere, mi piace perché è bella. Tiziano [Terzani] abitava invece ad Alexander Park, un grandissimo parco. Erano cose normali, non palafitte come gli indigeni… La mia gliela faccio vedere perché era una meraviglia.
(Prende un album di foto, le guardiamo. Case coloniali, giardini, italiani eccentrici, Terzani giovane.) Quindi lei scompariva per dei mesi dalla sua vita italiana?
Per degli anni.
E come manteneva i rapporti, scriveva lettere? Che vita faceva? Fa fatica a raccontare le cose sue…
Eh, mica c’è bisogno di raccontarle… No, la vita, a Singapore nei momenti… uno leggeva… Ci sono degli anni in cui uno legge… il mestiere raccontato così sommariamente ha dei grandi spazi vuoti, il viaggio… E uno in quei momenti lì non è che si sposa o stabilisce dei rapporti… E quindi legge: io ho letto le cose più strane rispetto ai posti… ho letto Musil in Asia e non c’entrava nulla… Naturalmente lì era facile leggere Conrad, a Singapore. Quando giravo a Singapore la sera rientravo e avevo i fari bassi e non vedevo i grattacieli perché la luce era bassa quindi vedevo i quartieri malesi, i canali con i barconi e davano l’impressione di essere in un libro di Conrad.
E lì imparava anche la lingua?
No, io ho avuto sempre un problema: di conoscere la mia lingua. Facendo questo tipo di vita a me capitava di non frequentare persone che parlassero l’italiano per mesi o per anni; dici lì c’era Tiziano, certo, ma è durato pochi mesi, insomma. Uno è legato alla propria lingua. Tiziano sì… (Lui è stato più amico di quanto io non lo sia stato con lui…) Lui parlava molto bene le lingue, aveva una grande facilità, lui parlava in malese, quindi andavamo nelle isole lì, al mare, e lui dopo dieci giorni parlava il malese, parlava un po’ il cinese. Poi è tornato in Italia. Ma io no, la mia preoccupazione è sempre stata quella di tenere l’italiano.