Questo pezzo è uscito su la Repubblica. (Immagine: un particolare della Cacciata dei progenitori dall’Eden di Masaccio)
Ordiniamo a qualcuno di arrossire. Presumibilmente – dopo una serie di sforzi per indursi disagio, una declinazione del metodo Stanislavskij focalizzato sulla vergogna – l’esito sarà nullo. Forse con un po’ d’impegno si arriverà a simulare, nella postura, l’imbarazzo (sguardo in basso, la punta delle dita contro le labbra), ma guance e fronte permarranno intatte.
Il rossore si sottrae all’ordine. Perché, appunto, non può essere suscitato da un comando, ma anche nel senso che coincide con un disordine del corpo, con una sua piccola impalpabile insubordinazione. Il rossore è l’irruzione improvvisa, sulla superficie somatica, di uno stato d’animo che non si è in grado di disciplinare: l’ammutinamento più lieve e silenzioso che i nostri corpi siano in grado di generare.
A questa manifestazione corporale è dedicato Rossori. Viatico all’esercizio della colpa e della redenzione di Felice Accame (:duepunti edizioni), un saggio breve che si concentra non tanto sul rossore in sé quanto sulla sua funzione narrativa. Che cosa esprime un narratore nel momento in cui decide che un suo personaggio, in una determinata circostanza, si ritrova con le gote in fiamme? Quale universo valoriale media un comportamento narrativo di questo genere? Quale idea di individuo, di società, di colpa?
Di rossore, nota Accame, si era già occupato Darwin in un capitolo di L’espressione dei sentimenti nell’uomo e negli animali. Nel verificare che le donne arrossiscono più degli uomini e i giovani più dei vecchi, lo studioso britannico fissò anche una geopolitica del rossore: se «le razze semitiche arrossiscono facilmente ed intensamente, come è da aspettarsi per la somiglianza generale con gli Ariani», pare che Calmucchi, Malesi e Mulatti non arrossiscano mai. Quel che è certo è che il rossore è sempre involontario. Al limite, come cantava Gaber, possiamo rassicurare qualcuno esortandolo a «non arrossire quando ti guardo», a non percepire lo sguardo come giudizio.
Perché di questo si tratta: il rossore è un’improvvisa coscienza di sé nello spazio sociale, dunque in relazione agli altri. È la reazione che si determina quando sentiamo di esistere sotto gli occhi del mondo, disponibili a un privilegio che però è anche una violazione: essere percepiti da chi ci sta intorno. E dunque arrossiscono Adamo ed Eva nella cacciata dal Paradiso di Masaccio (coprendosi volto, seno e pube), ma arrossisce anche Saffo, turbata non dall’essere percepita bensì dal percepire, nel celebre frammento 31: «Appena ti guardo un breve istante, nulla mi è più possibile dire, ma la lingua mi si spezza e subito un fuoco sottile mi corre sotto la pelle».
Nel suo libro Accame si concentra su una scena del Viaggio sentimentale di Yorick lungo la Francia e l’Italia di Sterne analizzando una girandola di bagliori cutanei che affiorano sui volti di un frate e dello stesso Sterne, nonché su Il mistero del treno azzurro di Agatha Christie. Volendo proseguire il suo lavoro – evidentemente pensare il rossore è contagioso – ricordiamo la vampa fulminea che imperla il volto di Emma Bovary durante il suo primo incontro con il futuro marito: «Charles sentì il suo petto sfiorare la schiena della giovinetta, curva sotto di lui. Essa si risollevò tutta rossa, e lo guardò da sopra la spalla».
Al di là della natura ignobilmente viscerale, poco più in là nel romanzo di Flaubert, del rossore di Charles («le guance arrossate dalla digestione»), per leggere l’ipersensibilità epidermica di Emma torna utile quanto Roland Barthes scrisse su Dominique di Eugène Fromentin. Ragionando su questo libro colmo di luci e di tenebre, di effusioni immediatamente contenute, Barthes nota che in Dominique il corpo esiste attraverso «la via del gran patetico, sorta di linguaggio sublime che si ritrova nei romanzi e nelle pitture del romanticismo francese». Vale a dire che il rossore letterario è qualcosa di intensamente immateriale tramite cui sul volto non si genera solo un fenomeno fisiologico ma una piccola rivelazione culturale. Nel rossore, cioè, si svela quella costellazione di riferimenti che appartengono tanto allo scrittore quanto al milieu morale del suo tempo.
Se dunque Ariosto può ancora tradizionalmente connettere erubescenza e affetti («non ebbe rossore chiedermi aiuto in questo nuovo amore») e Shakespeare, con Amleto, consolidare il nesso tra vermiglio e verecondia («O Vergogna, dov’è il tuo rossore?»), Accame chiude il suo saggio ragionando sul caso vergognoso dell’attore di avanspettacolo Renato Maddalena che ormai anziano, alla fine dei ’60, si esibisce in teatro nel tip-tap su una botte. Quando il numero termina gli applausi sono tiepidi; ugualmente Maddalena fa una dedica a qualcuno che è lì in platea. Accame, presente in sala, si gira e intravede «una vecchietta, nel suo pacchettino nero, molte file indietro, nel vuoto»: la madre dell’artista. A quel punto il rossore non è più qualcosa di individuabile.
Non è dell’attore crocifisso al ridicolo, non è di sua madre e neppure di Accame che osserva imbarazzato: il disagio è ambientale, appartiene alla situazione. Come se ad arrossire, in determinate circostanze, non fosse più il singolo ma lo spazio e il tempo, loro malgrado consapevoli del tragicomico disastro dell’umano. Perché ci sono occasioni in cui – come in Vergogna di Coetzee, come nel Processo di Kafka – il rossore non è più contingente bensì assoluto. Epocale. La scoria di amor proprio che indisciplinabile colora di sé le cose e poi scompare.