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Quando Teresa si arrabbiò col paradiso

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Questo pezzo è uscito su la Repubblica. (Immagine: Tex Avery.)

Delle famiglie infelici – ognuna a modo suo – sappiamo molto. Da Tolstoj a Franzen, da Flaubert a Eugenides, la letteratura si fa carico di raccontare l’amore storpio dei genitori, la rabbia orgogliosa dei figli, l’ubbidienza che cova mostri e la disubbidienza obbligatoria dei pugni in tasca: in che modo tutto ciò genera quel grumo sentimentale, fisiologicamente infetto, strutturalmente irrisolto e irrisolvibile che è la vita in comune di padri madri figli.

Forse per il fatto che le narrazioni hanno bisogno di conflitto, il famigerato «nucleo familiare» è stato e continua a essere covo più che nido, focolaio più che focolare, malattia, precipizio, follia, uno smalto di relazioni edificanti scorticato il quale si sprofonda in frizioni senza fine, in vincoli, in tagliole, in un brulichio di fenomeni che nessuna fiction di prima serata, con la sua difensiva ostentazione di conciliante armonia, riuscirà mai a dissimulare.

In Il mio paradiso è deserto (Rizzoli), terzo romanzo di Teresa Ciabatti, la famiglia è un marcatore chimico utile a evidenziare che al centro di ogni suo membro alligna prepotente un bisogno inesaudibile. Perché – e ha la perentorietà di una regola scientifica – quanto più è emotivamente fitta e inestricabile, una famiglia sarà il luogo elettivo in cui (e da cui) sentire la mancanza. Una zona aspra e irredimibile, il teatro di tentativi sempre più fiochi di far andare le cose in un altro modo ottenendo solo conferme alla propria amarezza.

Marta Bonifazi ha ventidue anni, cento chili di peso, legami polverizzati; vive reclusa nell’eden infernale della tenuta di famiglia, un ex convento convertito in residenza principesca. Marta sta alla finestra, osserva, o meglio spia rancorosa. Diventa un’esperta di infelicità. Della propria si prende cura tutti i giorni, la alleva facendola progredire da germoglio ad arbusto ad albero. Protetta dall’intrico dei suoi rami, a Marta non sta a cuore altro che ratificare, con acribia quasi notarile, non semplicemente la consistenza del suo dolore e della sua rabbia ma soprattutto, senza nessuno sconto, il suo diritto a essere ricca e infelice, privilegiata e infelice, accontentata in tutto e infelice: così infelice da arrivare tortuosamente a provare, negli abissi del suo capricciosissimo dolore, persino qualcosa di simile a una felicità.

Attilio Bonifazi, suo padre, è tetragono: non semplicemente «l’ottavo re di Roma» ma, tout court, Roma. Com’è dunque necessario accada, gli serve un perturbante. Lo trova, e gli sarà esiziale, in Lorenzo, un amico (fidanzato ombra) di Marta. A quel punto anche la sua vita è pronta all’inferno. Come è pronta quella di suo figlio Pietro, protagonista del terzo pannello di cui si compone il romanzo, l’ennesima esistenza fatta di terrori e di imposture, di inermità che genera rancore.

Teresa Ciabatti salda tra loro tonalità da cartoon – di quelli febbrili alla Tex Avery – a passaggi più raccolti; è narrativamente generosissima di immagini tanto quanto appare avara rispetto alla lingua che queste immagini dovrebbe nutrire.

L’epilogo del suo romanzo è magnifico: qualcosa si scardina, la sintassi si impenna, le immagini si moltiplicano. Ogni personaggio corre verso un’arsione liberatrice. Perché il rogo chiarisce che l’unico ossigeno respirabile in un nucleo familiare è l’anidride carbonica sprigionata dalla sua stessa combustione spontanea.

In quella che sembra solo amarezza e distruzione riconosciamo una conquista: la rabbia solida – il tessuto connettivo della famiglia – si è trasformata in leggerissima fuliggine.

Adesso il paradiso è deserto.


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